Gioie, fatiche e bilancio di alcuni presbiteri e religiosi stranieri
Incontro dei presbiteri e religiosi stranieri della Diocesi di Bologna (29 aprile 2023)
Il Pontificio Seminario Regionale di Bologna, in questo anno formativo, sulla scia del sinodo in corso nella Chiesa italiana, ha deciso di dedicare spazio e tempo a un tema di primaria importanza nonché fondamentale per la nostra fede cristiana: l’accoglienza. I seminaristi, insieme all’equipe formativa, si sono interrogati sulla loro modalità di relazionarsi e coinvolgersi con persone (preti e non solo) che per cultura, formazione e provenienza presentano delle differenze da noi.
Come rispondiamo quando incontriamo il «diverso» da noi? Come collaboriamo per integrare le differenze e renderle una ricchezza? Come le nostre comunità parrocchiali o diocesi si stanno interrogando e impegnando per favorire l’accoglienza di presbiteri stranieri che arrivano nel nostro Paese?
Dopo esserci preliminarmente posti queste domande, ognuno di noi si è poi impegnato a realizzare un’intervista-dialogo con uno o più presbiteri stranieri che operano nelle nostre diocesi di appartenenza, spesso per motivi di studio, dal momento che stanno conseguendo la licenza o il dottorato in Italia.
Una volta raccolti i dati, ci siamo radunati insieme per condividere le storie e le esperienze ascoltate e raccolte. Ne è emerso un confronto molto bello, arricchente e stimolante. Abbiamo sentito che nei nostri racconti vi era qualcosa di molto prezioso su cui soffermare la nostra attenzione.
Veniamo dunque ad alcuni punti che sono tornati con frequenza nelle narrazioni.
Innanzitutto per la maggior parte dei casi, durante l’esperienza in Parrocchia, il prete straniero si è sentito ben accolto e integrato grazie alla presenza di famiglie, amici e presbiteri. Spesso si è creato un bel dialogo che è stato molto utile per permettere di iniziare il ministero in Parrocchia in modo più facile. Inoltre talvolta è stato utile il fatto che il parroco abbia messo una buona parola sul prete straniero appena arrivato, ma anche che il prete straniero abbia aiutato il parroco ad intessere nuove relazioni con i membri della comunità cristiana.
Non sono mancate però le fatiche. Prima di tutto i preti stranieri lamentano delle difficoltà: la comunità ospitante, a loro dire, spesso mostra una certa «chiusura», una difficoltà cioè ad accettare la novità e il rinnovamento, a lasciarsi alle spalle una visione di Chiesa molto impostata. Inoltre, talvolta i preti stranieri si sentono colpiti da pregiudizi, anche per il colore della pelle e anche tra etnie diverse e alcuni di loro lamentano il fatto di sentirsi considerati soltanto come «preti che celebrano messe» e niente di più.
I preti stranieri riscontrano in loro stessi una fatica con la lingua italiana (spesso troppo diversa da quella del loro Paese di origine), non trovano facile vivere in una differente cultura (intesa come mentalità, modo diverso di affrontare i tempi, diverse attitudini di comportamento), non sempre si trovano bene con il parroco italiano e faticano a dialogare con le realtà presenti nel luogo.
La fase dell’inserimento è notevolmente delicata: è una fase in cui gli intervistati riconoscono di aver vissuto una dura esperienza di solitudine, di lotta interiore, di senso di immersione in un mondo che si afferra con difficoltà. È un momento da curare con particolare attenzione, tanto da parte del presbitero/religioso quanto da parte dell’intera comunità, perché non si crolli o, peggio, ci si chiuda con corazze di esteriore integrazione e interiore resistenza. Questa fatica, infatti, per essere superata richiede sincerità con se stessi e consapevolezza umana e di fede da parte del singolo, ma anche responsabilità attenta e capace di cura da parte della comunità che accoglie e, in particolare, di chi ha maggiori responsabilità. Preziosa a questi fini, è l’esistenza, nell’ottica di un chiaro progetto, di persone che abbiano questa responsabilità di tessitrici di relazioni, di sguardo di cura nei confronti delle realtà cui i presbiteri/religiosi stranieri sono inviati.
Infine, è stato molto bello scoprire, dalla voce dei preti stranieri che abbiamo intervistato, quale può essere effettivamente il loro apporto nel territorio che abitano. Innanzitutto, ci hanno raccontato, la loro presenza può offrire una sensibilità culturale diversa che può spingerci a gustare l’universalità della Chiesa. Inoltre, la loro presenza, intesa come una «missione» e non soltanto funzionale ad arginare la mancanza di vocazioni, porta in Italia un diverso modo di intendere la pastorale e le strutture arricchendo così tantissimo le nostre Parrocchie.
Infine, per quanto riguarda le opportunità che la Chiesa italiana offre loro, è innegabile l’importanza dell’istruzione teologica, vista come preziosa e anche eventualmente intesa come un bagaglio importante da restituire nel Paese d’origine. L’Italia è vista come sede di una tradizione religiosa multisecolare (ricca anche di devozioni). La nostra Chiesa, secondo i preti stranieri, ha il merito di sapersi interrogare riguardo al futuro cercando soluzioni nuove (vedi per esempio il tema annoso dell’assenza dei giovani nelle nostre comunità). Il nostro Paese inoltre fornisce sicurezza di vita e ospitalità.
Già il fatto di avere dialogato con i preti stranieri che vivono vicino alle nostre Parrocchie è stato molto importante: prima di tutto per accorciare le distanze che spesso, anche involontariamente, si possono creare per i motivi sopra elencati, poi perché in questo esercizio abbiamo sperimentato che davvero, grazie e per la nostra fede, siamo un’unica grande famiglia.
In una particolare occasione di ascolto, promossa dall’Ufficio Migrantes e dall’Ufficio per la Vita Consacrata della Diocesi di Bologna nella giornata di sabato 29 aprile, alcuni di noi hanno potuto incontrare e dialogare non solo con presbiteri ma anche con religiose di varia provenienza, dal Kerala alla Tanzania, dal Congo al Perù, dalle Filippine al Madagascar. Da questa ulteriore occasione, usciamo con l’importante consapevolezza che la «missione» non è solo quella dall’Italia verso le altre nazioni e gli altri continenti, ma che è in atto nelle nostre Chiese una preziosissima presenza missionaria di queste consacrate e consacrati che, per amore di Cristo, affrontano un viaggio che li porta ad essere a migliaia di chilometri da casa. La loro esperienza, la loro generosità nel partire, ci è di stimolo a riscoprire la radicazione che richiede nei nostri cuori e nelle nostre vite la parola di Dio, che risuona invitando ancora nuovi Abramo e Sara a lasciare la loro terra.
Imparando ad assumere questo nuovo sguardo, si potrà allora davvero cogliere quella perla che è la loro presenza nelle nostre Chiese, esercitando reciprocamente la nobile arte dell’integrazione, della comunicazione di una lingua che non è fatta solo di regole grammaticali ma di vita, musica, arte, storia, ed esercitando quei muscoli che ci permettono di dilatare gli orizzonti. La preziosa testimonianza di suor Virginia Isingrini ci ha dato consapevolezza che essere stranieri è difficile, ed espone all’esperienza di faticose durezze (si spera minori da parte della comunità cristiana) ma che l’essere stranieri, secondo le parole di Pietro (1Pt 2,11), è proprio di ogni cristiano e di ogni cristiana, e che l’autentico missionario, l’autentico evangelizzatore, è colui che sa di non essere qui per andare altrove in un sognato domani, ma che il suo qui e il suo oggi sono quel popolo che Dio ha sposato, quel popolo che aspetta il Vangelo, quel popolo per cui è chiamato a vivere e morire.
Usciamo da questo confronto con un forte incentivo a non lasciare nessuno ai margini della strada e consci dell’importanza di «portare i pesi gli uni degli altri» (cf. Gal 6,2). Dopo questo interessante percorso non possiamo né vogliamo tirarci indietro: accettiamo la sfida e la provocazione a farci promotori dell’accoglienza!
Paolo Santi e Riccardo Ventriglia