«SONO LIBERO PER LIBERARE»

La commovente testimonianza di padre Gigi Maccalli, per due anni rapito nel Sahel

Padre Gigi Maccalli arriva a Bologna con uno sguardo lieto e sorridente. È un venerdì sera di metà gennaio: sono da poco terminate le festività natalizie. Chi non lo conosce, non può immaginare cosa nasconda quel volto, quella storia, quella umanità. Ma chi ne ha avuto la fortuna, in questi anni, sa la straordinarietà dell’esperienza di questo uomo, per 752 giorni in balia dei sequestratori tra le savane del Sahel e le dune del Sahara.

Gigi Maccalli, nato a Madignano (CR) nel 1961, presbitero dal 1985, membro della Società Missioni Africane (Sma) prende posto in mezzo a noi e si racconta. E lo fa non senza quel velo di emozione che in storie come la sua non solo è immaginabile, ma pure comprensibile. E l’emozione sua diventa la nostra e si trasferisce nelle nostre menti, nelle nostre storie. Davvero, è il caso di dirlo, di fronte a persone così, indifferenti non si potrà restare mai. Le parole, lo lascia ben intuire padre Gigi, in situazioni delicate come queste annullano il loro potere comunicativo, rivelando la loro inefficacia. Il mistero di ciò che avviene nelle nostre vite va oltre le parole con cui possiamo descriverlo. Lo sperimenta bene padre Maccalli in questi due anni abbondanti di prigionia.

Tutto inizia il 17 settembre 2018. È notte fonda alla missione di Bomoanga, piccola località nel sud-ovest del Niger a circa 60 km dal confine con il Burkina Faso. Gigi sente strani rumori fuori dalla finestra del suo studio. Varca la porta, illumina la notte con la torcia e vede alla sua destra tre fucili puntati contro di lui: il missionario fa un sobbalzo prima di far uscire un forte grido. Sono attimi concitati e convulsi. Dopo essere stato accerchiato, si ritrova con le mani legate dietro la schiena. Inizia il sequestro. Padre Gigi Maccalli tornerà libero ad ottobre 2020. Cosa è successo in questi due anni? Quali vicende ha dovuto affrontare il missionario italiano? Come è stato trattato dai sequestratori? Qual è stato il suo rapporto con Dio in questi anni così duri? Una bella e commovente sintesi delle risposte a queste domande, Maccalli l’ha messa per iscritto in un bellissimo libro dal titolo Catene di Libertà, Per due anni rapito nel Sahel, Editrice Missionaria Italiana (EMI), settembre 2021.

Nella serata in seminario padre Gigi non può ripercorrere fedelmente tutte le tappe significative di questo “esodo forzato”, ma indubbiamente non sarebbe stato necessario. Quello che conta, e che non è di certo mancato, è il messaggio di fede, di speranza, di gioia che ha inondato tutti. È il vertice del mistero cristiano: il contrario della vita non è la morte, ma l’amore, un amore donato ed effuso fino alla fine. Anche in Maccalli lo sconforto e la disperazione a tratti sembravano aver preso il posto della speranza e della fede in Dio, ma se c’è una cosa che mai, nei due anni di prigionia, è mancata nelle giornate del missionario, questa è stata la preghiera, il rapporto con Dio costruito da parole e gesti. Durante il sequestro padre Gigi riceve la grazia di condividere questo tempo con due connazionali, Luca e Nicola, considerati un segno della provvidenza di Gesù che mai lascia soli, ma soprattutto torna a meditare su una espressione di François Varillon, gesuita e scrittore francese: «Ciò che l’uomo umanizza, Dio divinizza». Per questo motivo, padre Gigi capisce l’importanza di vivere profondamente ogni istante e incomincia a dialogare persino con i suoi sorveglianti.

Ed è qui che egli comprende che, una volta uscito da questa terribile prova, nascerà per lui una nuova vocazione: «liberato per liberare e proporre a tutti una Parola che libera e fa bella la vita. Mai imprigionare le persone, possederle, trattenerle e diventare per loro un punto di riferimento, ma aprire nuovi orizzonti e lasciare tutti liberi di scegliere e anche di sbagliare. Perdonare sempre, far emergere la verità, amare e lasciar crescere». I jihadisti invitano spesso padre Maccalli a professare il credo islamico, ma egli non cede. Non solo, a poche ore dalla liberazione definitiva, chiama il capospedizione Abu Naser, prende fiato e dice in un soffio: «Che Dio ci dia di comprendere un giorno che siamo tutti fratelli». Al termine di questo stupendo incontro con il missionario italiano emergono nelle nostre menti tante parole, flussi di pensieri armoniosi e profondi, ma ne scegliamo una: GRAZIE! Grazie padre Gigi per questa testimonianza di fede, di eroismo, di letizia cristiana, di speranza. Grazie perché, come ti ha ricordato papa Francesco, «noi abbiamo sostenuto te, ma tu hai sostenuto la Chiesa». Grazie perché ci hai ricordato che «essere liberi è una responsabilità che impegna a offrire una parola che genera libertà e vita».