Alle Radici della Promessa: Terra Santa 2022

«Facendo memoria del Verbo di Dio che si fa carne nel seno di Maria di Nazareth, il nostro cuore si volge ora a quella Terra in cui si è compiuto il mistero della nostra redenzione e da cui la Parola di Dio si è diffusa fino ai confini del mondo. Infatti, per opera dello Spirito Santo, il Verbo si è incarnato in un preciso momento e in un determinato luogo, in un lembo di terra ai confini dell’impero romano. Pertanto, quanto più vediamo l’universalità e l’unicità della persona di Cristo, tanto più guardiamo con gratitudine a quella Terra in cui Gesù è nato, ha vissuto ed ha donato se stesso per tutti noi. Le pietre sulle quali ha camminato il nostro Redentore rimangono per noi cariche di memoria e continuano a “gridare” la Buona Novella»
(Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, Roma, 30 settembre 2010, n.89)

Il seminario è un luogo in cui è favorita la crescita di una fede matura, di una sequela scelta e rinnovata ogni giorno nei confronti del Signore Gesù. Volendo dunque radicarci più in profondità nella coscienza della «concretezza» e della «realtà» del mistero dell’incarnazione e della redenzione, abbiamo iniziato questo nuovo anno formativo con un pellegrinaggio decisamente prezioso nei luoghi della Terra Santa, lì dove i profeti, gli apostoli e lo stesso Gesù hanno camminato e vissuto, fino a giungere al Santo Sepolcro, epicentro di quell’annuncio di vita che da quasi duemila anni attraversa il mondo. 

Partiti alla volta di Tel Aviv il 15 settembre, con il cuore colmo di emozioni e illuminato dalle parole degli autori sacri e dei pellegrini che ci hanno preceduto, abbiamo iniziato un itinerario sotto la competente guida di Mons. Marco Bonfiglioli, rettore del Seminario Diocesano di Bologna, che ci ha trasmesso la sua passione per questi luoghi e per questa Terra.

Il primo impatto, che per molti di noi è stato folgorante, è stato l’incontro con il deserto del Negev, nel sud del paese. Queste distese sterminate di roccia ambrata e polvere, caratterizzate da un odore pungente e da un’arsura penetrante, ci hanno riportato all’esperienza di Abramo, alle radici della promessa di Dio che mette in moto la vicenda del popolo d’Israele, un popolo in cammino. Il dono di Dio, infatti, promette di essere come l’acqua che, scendendo su queste lande apparentemente sterili, le feconda e le rende verdi, un terreno dove trovano riparo gli uomini e pascolo gli animali.

Nel cuore del deserto scorre la via dell’incenso, che per secoli è stata attraversata da mercanti e ha segnato la storia di alcune piccole città, di cui si possono ammirare i resti, del regno nabateo (la cui capitale era la celebre Petra, situata in Giordania) che, nel IV secolo, si convertì al cristianesimo, lasciando così, nelle sue città, tracce della preghiera di comunità che, secoli prima di noi, credettero nello stesso Maestro e Signore. È una importante provocazione mettere i passi sulle loro orme, ed incontrare con umiltà la loro testimonianza di fede, riconoscendoci figli ed eredi di una storia, custodi di un annuncio che, come i preziosi talenti della parabola, ci è affidato perché porti frutto.

Il secondo giorno, dopo una notte nel deserto nei pressi di Arad, siamo saliti a Masada, roccaforte erodiana, poi zelota e, infine, romana, situata quasi al livello del mare ma aperta sulla più grande depressione del pianeta che raggiunge, alla superficie del Mar Morto, i -430 metri di altitudine.

La depressione del Mar Morto vista da Masada

L’esperienza di questi panorami sterminati e ricchi di meraviglie si è unita all’incontro con una complessa situazione sociale e politica. La testimonianza di Daoud Nassar nella fattoria Tent of Nations a pochi chilometri da Betlemme e delle Figlie della Carità nell’Orfanotrofio La Creche, come anche le parole del diacono Lorenzo Ravasini incontrato a Betania qualche giorno dopo, ci hanno permesso di toccare con mano una realtà che appare spesso distante e forse troppo spesso vittima di semplificazioni. Ringraziamo quindi coloro che ci hanno preso per mano e aiutato a conoscere la storia di una Terra per troppo tempo martoriata da scontri e tanto lontana dalla pace. Ringraziamo di cuore anche il Patriarca Latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Mons. Pierbattista Pizzaballa, per la gentile accoglienza e la disponibilità a rispondere alle nostre domande soprattutto sulla situazione ecclesiale di quella Terra di cui ha scritto Benedetto XVI: «Quanto è importante che in quei luoghi ci siano comunità cristiane, nonostante le tante difficoltà! […] Qui i cristiani sono chiamati a servire non solo come “un faro di fede per la Chiesa universale, ma anche come lievito di armonia, saggezza ed equilibrio nella vita di una società che tradizionalmente è stata e continua ad essere pluralistica, multietnica e multireligiosa”» (Benedetto XVI, Verbum Domini, n.89). Tutto questo, dice Paolo Santi, ci provoca a non scordarci mai che «al centro di tutto c’è (e, aggiungo, bisogna insistere perché ci sia sempre, n.d.r.) l’uomo, la creatura più bella e amata da Dio».

I diversi luoghi che abbiamo visitato e in cui abbiamo pregato e celebrato ci hanno permesso di percorrere, con un itinerario evangelico e liturgico, i misteri della fede non, come siamo abituati, scendendoli mediante dei «tempi» (come l’Avvento, il Natale o la Pasqua) ma celebrandoli nei «luoghi» dove generazioni di pellegrini e di santi hanno sostato per penetrare più in profondità la realtà e la fisicità del mistero di salvezza con cui il Dio-Trinità ha toccato e chiamato la nostra umanità alla comunione con sé. Così a Betlemme abbiamo celebrato l’annuncio ai pastori, uomini poveri che, depositari di una rivelazione, diventano annunciatori e aprono a quanti li ascoltano i tesori contenuti nel mistero di quel bambino che nasce, ma anche la natività del Figlio di Dio dal tronco di Iesse nella città di Davide e la sua epifania alle genti. Al Giordano abbiamo ricordato il Battesimo di Gesù e il nostro stesso Battesimo, rinnovando la nostra adesione di fede e chiedendo di essere aiutati a vivere con sempre maggiore autenticità e verità quell’immersione nella vita di Dio che abbiamo ricevuto come dono quando eravamo bambini.

Risalendo la valle del Giordano siamo giunti a Nazareth, dove abbiamo meditato l’Annunciazione, in quella basilica a cui il nostro Seminario è indirettamente legato tramite la Madonna di Loreto, nella cui memoria annuale ricordiamo l’anniversario dell’inaugurazione della nostra prima sede, e abbiamo toccato la stessa umanità di Maria di fronte all’annuncio dell’Angelo. Ma Nazareth non è solo il luogo dell’annunciazione, come ci ha giustamente ricordato suor Stefania che abbiamo incontrato per visitare un interessante scavo che ha riportato alla luce una casa e una tomba del I secolo, permettendoci così di educare la nostra immaginazione nell’accostare i testi evangelici. Nazareth è, infatti, il luogo (sconosciuto fino ad allora nei testi biblici) dove il Figlio di Dio ha scelto di vivere trent’anni della sua vita. La sua prima scelta da dodicenne fu, infatti, il ritorno da Gerusalemme e la vita sottomessa a Maria e a Giuseppe. Nazareth è dunque depositaria di un mistero su cui troppo spesso si soprassiede ma che ha illuminato la vita di san Charles de Foucauld, la cui testimonianza ci è stata raccontata con dovizia di particolari da Giovanni Marco dei Piccoli Fratelli di Jesus Caritas, che vive proprio a Nazareth cercando di tessere relazioni secondo la logica del Vangelo.

Un ulteriore luogo che ha stregato i nostri occhi e scaldato i nostri cuori è stato il lago di Tiberiade, o mare di Galilea, che abbiamo toccato attraversando i luoghi in cui si ricorda la moltiplicazione dei pani e dei pesci, il primato di Pietro, il discorso della montagna e concludendo la visita a Cafarnao. «Per me è stato edificante poter “toccare” i luoghi in cui Gesù ha vissuto con i suoi discepoli, – racconta Stefano Bucchi – e in particolare Cafarnao mi ha lasciato un ricordo indelebile: mi hanno attratto i resti di quelle casupole, della sinagoga dove predicava, e della casa di Pietro, dove fu ospitato per qualche tempo. Mi sono chiesto: perché questa attrattiva per questi luoghi? Credo che nasca dal desiderio di una vita quotidiana e “ordinaria” a stretto contatto con Lui. Dal desiderio di una familiarità con Lui. Quei luoghi suscitano in me il desiderio di un più stretto contatto con il Signore nella vita quotidiana, attraverso i volti che mi ha messo di fianco nel cammino. Un invito a fargli spazio ogni giorno, in un certo senso a “ospitarlo” in casa mia, come fece Pietro. E che bello constatare che anche Gesù cercava questa familiarità con i suoi discepoli!».

Il mare di Galilea

Il giorno seguente siamo poi saliti sul Monte Tabor, dove abbiamo ricordato il mistero della Trasfigurazione del Signore e abbiamo avuto il dono di poter dedicare una mezza giornata ad un silenzioso ascolto del Signore. «Al Tabor – racconta Paolo Santi – ho compreso che anche nella mia storia Dio ha acceso una luce, la luce del suo amore, fatto di volti e amicizie».

Continuando a seguire le orme di Gesù e dei suoi discepoli, siamo passati anche noi da Gerico, la città più antica e bassa del pianeta, tanto significativa per la coscienza storica del popolo d’Israele nella Bibbia. Risalendo la strada nel deserto di Giuda percorsa anche dal Buon Samaritano della parabola lucana, siamo giunti infine a Gerusalemme. Qui abbiamo potuto osservare, con ancora più forza, la diversità delle culture e delle religioni che abitano questa Città Santa, in una difficile e spesso tesa convivenza. Abbiamo potuto visitare il Muro Occidentale, la Spianata delle Moschee, camminando su quel terreno carico di significato religioso e spirituale e ammirandone la vastità rispetto a quella dell’antica Gerusalemme.

Abbiamo potuto visitare i luoghi che ricordano i diversi eventi della Passione del Signore, i luoghi in cui è stato tradito/consegnato, in cui ha scelto di consegnarsi a noi, dal Cenacolo al Getsemani, passando per la chiesa di San Pietro in Gallicantu. Abbiamo avuto il dono di poter contemplare Gerusalemme dal Monte degli Ulivi, ricordando il pianto di Gesù e chiedendoci se davvero noi, oggi, sappiamo riconoscere il tempo in cui Egli ci visita e riconoscere ciò che porta alla pace. Percorrendo le strette vie della Città, spesso affollate da negozi di vario genere, abbiamo calcato i passi che, da secoli, i pellegrini percorrono meditando la Via Dolorosa. Abbiamo potuto conoscere più da vicino la storia di questa città che ha, sulle sue spalle, millenni di vicende di edificazione e distruzione che si perdono in un passato in cui non solo è difficile distinguere la cronaca dal racconto e dalla devozione popolare, ma forse non è nemmeno troppo utile. Occorre piuttosto, lasciate le precomprensioni e le aspettative, entrare in punta di piedi in un mondo, in una esperienza religiosa, in una cultura che può risultarci distante, perché attraverso di essa il Signore ci guidi a convertire il nostro cuore. «A Gerusalemme si viene per convertirsi» ci ha ripetuto con forza il Patriarca emerito della chiesa melkita che abbiamo potuto incontrare nel luogo dove alloggiavamo.

Di sicuro abbiamo incontrato una terra non facile da accogliere, ma che, per grazia del Signore, ci ha indicato un cammino da percorrere. Forse non torniamo a casa con «obiettivi raggiunti» ma con tanta gratitudine e meraviglia e soprattutto con una finestra aperta su un cammino che ci aspetta davanti in quella Terra Santa che è la nostra terra e il nostro tempo, abitati dal Signore anche nelle loro contraddizioni.

Entrare nella Basilica del Santo Sepolcro, celebrare la Risurrezione di Gesù nel luogo che archeologicamente è il più affidabile di tutti quelli che avevamo visitato fino ad allora, poter pregare lì all’interno di quei grandi movimenti di masse di pellegrini e turisti, superando la tentazione di scandalizzarci anche di fronte alla divisione che gli stessi cristiani vivono tra loro, oppure imitare le donne e correre al Sepolcro la mattina prima dell’alba per trovare un clima di silenzio e di accoglienza del mistero è stata un’esperienza unica, che in ogni caso ha segnato dentro di noi, nei nostri occhi, nelle nostre mani, nei nostri piedi, un ricordo indelebile.

«È l’esperienza che mi ha toccato di più in questi giorni, – racconta Altenio Benedetti, che già altre quattro volte era stato in pellegrinaggio in quei luoghi – perché mi ha fatto rivivere in prima persona il momento cruciale narrato nei quattro Vangeli: la scoperta della tomba vuota. Con Riccardo e Samuele, e grazie all’aiuto di Giacomo che ci ha raggiunti più tardi, siamo usciti dall’albergo per recarci al Santo Sepolcro “di mattino, quando era ancora buio”. Ritrovarsi a camminare in fretta per le vie di una Gerusalemme silenziosa e deserta, senza essere distratti nemmeno dai primi schiamazzi mattutini, è stata una esperienza inedita vissuta proprio alla luce di quanto è scritto nel Vangelo. Arrivati alla Basilica, siamo riusciti ad entrare nel sepolcro e, inginocchiandoci e ponendo le mani sulla nuda pietra, con trepidazione abbiamo potuto constatare anche noi, come Maria, Pietro e Giovanni il primo giorno della settimana, che la tomba era vuota; le vicende umane sono state divise tra un prima e un dopo quella semplice constatazione. Dio ci ha visitati, e nel suo infinito amore è morto per noi, ma visto che la morte non poteva tenerlo prigioniero, ha lasciato la tomba risorgendo e manifestando la sua totale regalità. Rivivere questa esperienza evangelica ha avuto per me un significato particolare, certamente più coinvolgente rispetto a tutti gli altri accessi ad un affollato Santo Sepolcro».

«Il sepolcro vuoto – afferma Paolo Santi – è stato per me lo stimolo a non fermarmi alla morte che incontro in me e nel prossimo, ma a saper attendere le sorprese di un Dio favoloso che continua a donare vita».

In conclusione, attraversare quelle strade e camminare per quelle vie, attraversare quegli spazi con tutti i nostri sensi, in un modo o nell’altro, in un modo diverso per ciascuno di noi, ha piantato nel cuore un seme che chiediamo al Signore di rendere fecondo nella nostra vita e nel nostro cammino di discepoli in cui il Vangelo si riattualizza.

Tornati a casa, come quel mattino di duemila anni fa, possiamo anche noi testimoniare un’assenza che è l’unica «prova» di un’autentica e viva presenza: «Non è qui. È risorto».